Massimo Spallino

di Simone Pazzano

Ultima Modifica: 23/01/2019

Profondamente legato al territorio, chef Massimo Spallino ama e conosce alla perfezione tutti i frutti della sua terra, il Veneto. La difesa della genuinità della materia prima è uno degli elementi fondamentali della sua cucina. Attualmente è lo chef del ristorante Vecchia Stazione, a Roana, sull’altopiano di Asiago.  

Cosa vuol dire essere cuoco per te?

In modo goliardico risponderei d’istinto che vuol dire essere matto. La verità è che essere cuoco vuol dire felicità e buon umore. È far felici le persone! Noi lavoriamo con l’umore della gente e, se ci pensi, ci sono poche cose che fanno arrabbiare come mangiare male. 

Qual è il tuo ingrediente del cuore?

Dipende, varia molto a seconda del momento. Posso dire che l’olio crudo è la cosa che mi piace di più in assoluto e che fa sempre la differenza. E poi riesco a usarlo durante tutto l’arco dell’anno. A differenza di altri ingredienti che amo allo stesso modo, ma che ho a disposizione per un breve periodo dell’anno. Ad esempio asparagi e spugnole: è il mio matrimonio perfetto, ma purtroppo dura poco. Diciamo che è un amore che sfuma subito, un colpo di fulmine breve ma intenso.  

E quello segreto?

Il territorio. La materia prima sempre e comunque. Cerco sempre di esaltare ciò che ci dona la natura mantenendone più possibile il sapore. Più l’ingrediente è di qualità e meno va lavorato. In montagna poi la cucina deve essere sempre genuina.  

Il tuo viaggio dei sapori in Italia…

Mi piace scoprire sempre meglio la cucina della Sicilia. Dal punto di vista del gusto, secondo me è la regione più bella e stimolante. Hanno davvero tante materie prime e influenze differenti: una cosa spettacolare. La mia cucina, quella veneta, è abbastanza speziata ma per merito di ciò che ha portato Marco Polo, quella siciliana invece è così grazie a tutte le influenze che mescola: araba, normanna, italiana e autoctona. È davvero una cultura importante.  

 

Cos’è per te la cucina?

L’emozione di toccare l’alimento e trasformarlo. Prendi il riso per esempio: chi non ha messo la mano nel chilo di riso facendo scorrere i grani tra le dita o muovendolo come la sabbia? Il mio rapporto con la cucina è iniziato che ero davvero molto piccolo, ma all’aria aperta: nell’orto del nonno. Andavo, curiosavo e tiravo su le cose dalla terra annusando quei profumi che inevitabilmente mi hanno fatto avvicinare alla cucina in modo importante. Mi piaceva piantare carote, asparagi, pomodori e poi aspettare la stagionalità per andare a rubacchiare i frutti dell’orto. 

Qual è lo stile del tuo ristorante?

In tre parole: territorio, caldo, legno. Per me è importante che il mio ristorante rispecchi il territorio in cui sono e il calore della montagna in cui mi trovo. Non deve essere troppo formale perché la gente deve venire qui per stare bene. Mi piace che ci sia familiarità e calore.  

Che valore ha per te la tua terra?

È il futuro. E infatti la tengo assolutamente nel cuore e non potrebbe essere altrimenti. È l’unica cosa che bisogna mantenere davvero perché ti dà la tipicità e la territorialità.
Alcuni esempi: qui si produce l’Asiago che secondo me è il formaggio più buono d’Italia, ma non solo.
I funghi! Non esistono solo i porcini. Appena va via la neve, qui vengono fuori le medagliette, e via quelle arrivano le spugnole, e via quelle arrivano i san Giorgio. E le erbette spontanee a primavera? La mia terra mi dà così tanto che basta solo avere un po’ d’occhio e usare questi tesori.
 

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L'Autore

Curioso prima di tutto, poi giornalista e blogger. E questa curiosità della vita non poteva che portarmi ad amare i viaggi e il cibo in ogni sua forma. Fotocamera e taccuino alla mano, amo imbattermi in storie nuove da raccontare.